venerdì 7 gennaio 2011

postulati sull'amore: il segno


Per il solo fatto che spesso la correlazione anno nuovo vita nuova sia svuotata di senso (più altri meccanismi oscuri che non trovano spiegazione nelle regole della logica tradizionale), mi sembra doveroso inaugurare il decennio appena iniziato con questa serie di “postulati sull’amore”. Nessuna immagine di accompagnamento, solo parola scritta, astenersi lettori di diari personali e delusioni sentimentali.

Ne aggiungerò uno ad ogni venerdì, stando attento a non fornire alcun tipo di definizione, soltanto impressioni personali, non in ordine d’importanza ma di scoperta.

Cominciamo appunto parlando d’immagini e dei segni che le compongono, della possibilità di tramutare i primi ghirigori infantili in opere in grado di farti andare di traverso l’intero cenone di capo d’anno. Il motivo per cui ho scelto il disegno classico come argomento di base risiede nella mia incapacità di andare oltre le raffigurazioni “bidimensionali” bizantine (per il 3D c’è il multisala).

D’altronde

io subisco molto il fascino delle immagini*

(affermazione da riportare rigorosamente con un neo posticcio al centro della fronte, roteando piano la testa con occhi sbarrati e denti stretti) praticamente da quand’ero in fasce. Mi domandavo come si potessero realizzare quelle figure, tanto perfette quanto semplici, che vedevo nei cartoni alla tv o nei fumetti sulle riviste. Così la prima cosa che feci fu tentare di copiarle, riportandole su qualsiasi pezzo di carta mi capitasse a tiro. Mi concentravo soprattutto sui vestiti dei personaggi, sui particolari, lasciando perdere le espressioni del volto. Riempivo quaderni interi, eppure mi sembrava impossibile. Dopo un po’ capii che non si trattava d’altro che un insieme di linee, pur complicato che fosse, e che il mio segno non doveva essere sostanzialmente uguale a quello degli altri per rendere il personaggio verosimile. Certo continuava a presentarsi qualche problema; ad esempio disegnavo sempre una gamba più corta dell’altra, un braccio più magro e così via. Per di più la mia mano, la sinistra, ancora diseducata al gesto, si stancava quasi subito e spesso mi capitava di sporcare tutto il foglio. Mi ricordo che una maestra mi consigliò una penna particolare, di quelle con l’inchiostro cancellabile, il che complicò ulteriormente la situazione (ancora quelle per mancini non le avevano inventate). Molto più tardi, dopo parecchi anni di aloni e di macchie, qualcuno mi disse di usare le matite e, solo una volta soddisfatto, passare tutto a penna. Ovviamente il mio tratto era nello stile zappa (non il chitarrista, mi riferisco proprio allo strumento agricolo), il che rendeva difficile cancellare gli errori. A forza di copiare però riuscii ad immagazzinare un archivio di immagini-tipo sempre maggiore, dal quale pescavo ogni volta che dovevo rappresentare qualcosa. La soddisfazione più grande per me rimaneva comunque lo schizzo fatto di getto, senza correzioni, quando hai ben fisso in mente ciò che vuoi fare e sai come metterlo in pratica; questa cosa della grafite però mi aiutò moltissimo, arrivando addirittura a ricoprire il ruolo di comunicazione alternativa quando le parole non bastavano. Poi fu la volta della china, che mi permettè di campire enormi zone di nero in poco tempo, e del colore, che rese tutto più imprevedibile e sperimentale. Questo coincise più o meno con un cambio di orientamento nei miei soggetti verso le persone reali, ben più interessanti e sfaccettate dei personaggi di fantasia. La lotta contro gli stereotipi continua ancora oggi, nonostante la scuola mi abbia impartito le tecniche per sbarazzarmene. In qualche modo però credo d’essere riuscito a distinguere un segno elegante da uno incompleto, un ritratto accademico da una caricatura. Ecco, a tal proposito: le caricature sono divertenti. Fai credere ad una persona di accentuarne i difetti, mentre in realtà stai solo aggiustando qua e là; in sostanza, giochi a farla sentire più bella di com’è. Se pensi a come la percepisci veramente, con quel naso palesemente fallico e quelle orecchie plananti, realizzi di aver salvato in questo modo un’autostima, pur continuando a ridere dentro. Ecco perché il figurativo è così limitato; finisci per essere costretto all’interno di un qualche schema prestabilito, che sia la “spiccata sensibilità” del tuo pubblico o il buon gusto comune. Con l’astratto invece puoi lasciare uscire le linee dalla porta di servizio senza bisogno di ordinarle, puoi dare libero sfogo al tuo immaginario, stimolando la curiosità e lasciando spazio all’interpretazione libera.


In questo senso si può dire che la capacità di sintesi tradotta in immagine sia il mezzo più potente che esista, specie se accompagnata da una parola di commento azzeccata, perché basta uno sguardo per percepirlo e renderlo proprio. Da utilizzare a dosi incontrollate, alla totale portata dei bambini, se i sintomi persistono non chiamatela arte.

2 commenti:

Janie Jones ha detto...

Non avevo mai pensato alla caricatura sotto questo punto di vista. Forse è per questo che la gente solitamente preferisce posare per i caricaturisti (?), soprattutto chi ha il naso alla Federico da Montefeltro.

(Quando G.L.F. comincia a parlare di cavalli sudati e puledre, perdo il filo del discorso e la voglia di seguirlo)

davide idee ha detto...

janie,
figurati io.

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