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domenica 27 novembre 2011

palloncini


L’altro giorno ero al parco, alla ricerca di un po’ di tregua dal traffico cittadino, quando ad un tratto mi imbattei in un bambino – avrà avuto 6, 7 anni al massimo – che rese vano il mio tentativo di fuggire al caos quotidiano con quest’unica, stridula frase:

“7 Ottobre!”


Poi, un gran boato, che rimbalzava addosso alla vegetazione circostante. Il piccolo, infatti, si divertiva a far scoppiare dei palloncini colorati con le mani e, prima di ogni nuova detonazione, urlava una data a caso:

“20 Marzo!”

Il padre del precoce guerrafondaio se ne stava su una panchina lì accanto, noncurante del gran baccano che questi produceva con le sue manine sante, né del fastidio che procurava alle altre famiglie che in quel momento stavano passando.

Lo vede? – Mi disse compiaciuto il tipo, notando che guardavo la scena incuriosito.

– Tutto suo padre! Gli ho insegnato a memoria le date d’inizio di tutti i conflitti ai quali il suo vecchio ha aderito con onore. Tutte quante. Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia. Da quando gli ho fatto vedere i filmati, poi, ha dato proprio di matto. –

Ma è terribile! – commentai io, allibito.

Sì, lo so – mi rispose lui – ma cosa vuole, son bambini. Non possono ricordarsi proprio tutto. Tra qualche tempo saprà anche anno e orario d’attacco, glielo garantisco. –

Nel frattempo una bambina, che timidamente si era avvicinata, volle giocare anche lei con i palloncini.


“Guarda papà, atto di forza!”


Gridò diabolico il balilla, rivolto al padre, mentre torceva il braccio della sventurata.

Quello scoppiò in una fragorosa risata, salvo poi intimargli di smetterla, ché già si era fatta l’ora di andare.

Anche se scocciato, il bambino obbedì e lasciò il braccio della poverina, che scappò via piangendo.

Prima di andarsene, però, il piccolo portò meticolosamente a termine la missione, finendo gli ultimi palloncini a suon di pestoni.

Quel pezzo di aiuola sembrava un vero campo di battaglia adesso, con quelle zolle di terra smossa e tutti quei resti di gomma inutile e polverosa.

In particolare, m'incuriosiva il fatto che il bambino non avesse la benché minima paura di fronte allo scoppio, così chiesi al padre:

- Come mai ?

Questa volta però non mi rispose. Richiamò il figlio a sé e, tendendolo per mano, si voltò e mi sorrise. Come a dire: gli verrà.




mercoledì 25 maggio 2011

somigliava ad una boa


Che facesse bello o brutto, Christian passava sempre il suo tempo al pontile.

Così si distraeva dal grigiore odierno che si trovava tutt'intorno:
guardando il mare cambiare colore, a secondo dei momenti del giorno.

Christian se ne stava lì, ad osservare i pescatori attraccare, passate le ultime ore di luce.

“Questo pontile non va”, diceva Christian tra sé.

“Prima o poi qualcuno ci cadrà dentro e andrà giù a fondo”.


E infatti ci cadde, il povero Christian, vittima del suo stesso infelice pronostico; un giorno come altri, per caso, mentre era lì a passeggiare, un pezzo di ferro si capovolse sotto il suo peso e il suo corpo paffuto cadde dritto nel mare.

Ma non restò a fondo, no.

Al contrario, per la sua sferica forma, risalì in superficie e per una buona mezz'ora è lì che rimase.

Christian invocava un aiuto a gran voce, vedendo le onde ingrossarsi, sopra e sotto di lui.

Solo che, causa il destino infausto o chicchessia, la sua felpa colorata lo faceva somigliare in tutto e per tutto ad una boa.

I pescatori, che arrivavano al solito orario per attraccare, ebbero l’impressione di udire qualcuno in mezzo al mare, ma si affrettarono comunque ad afferrare quella cosa colorata che somigliava ad una boa, assicurandola alla barca, con un rapido giro di prua.

A quel punto Christian non respirava più bene, con tutta quella corda a stringergli il collo.

In compenso, però, gli riusciva ancora di apprezzare le sfumature dell’acqua, che, calda e salata, gli riempiva il naso, le orecchie, la bocca.

All'ultimo gli parve di sentire la voce di sua madre che, come bollicine, pronunciava parole sempre più fievoli e lontane; gli parve addirittura di vederla, un attimo prima d'affogare, rivolgersi ai pescatori con fare gentile e domandare:

“Avete pesce da arrostire?”

lunedì 31 maggio 2010

il cimitero delle mosche


Lo studio da lavoro di Bastièn era posto all'ultimo piano di casa sua. Lì si crogiuolava per delle ore sulle nuove cose che gli venivano in testa, che diventavano subito vecchie nel momento in cui venivano appollottolate e lasciate cadere sul pavimento.
Bastièn camminava avanti e indietro, un gran su e giù, senza riuscire a darsi pace. Non sopportava l'idea di usare il solito meccanismo trito e ritrito, per cui si debba partire da un'immagine simbolica e, dandone indirettamente il contenuto, esprimere un concetto, fine della storia e tanti saluti. Avrebbe voluto andare avanti, compiere il passo che gli permettesse di raggiungere il livello successivo, ma niente.


Un giorno, lanciando uno degli ordinari fogli appallottolati, Bastièn si accorse di un gran numero di mosche morte, raggruppate ad un angolo del suo studio. Nessuno pulisce da settimane - pensò - devono essere qui da qualche tempo.
Bastièn si chiese come fosse possibile morire così: dopo aver raggiunto il piano più alto delle tue aspirazioni, dietro un vetro, guardando l'esterno senza riuscire a prendervi parte.

Quelle se ne stavano lì, nere e sfatte, con le zampette rivolte verso il soffitto lontano, insieme a tutte le sue idee incapaci di volare.



°Disegno by me

giovedì 19 novembre 2009

Storia di Lauretta


A scuola la conoscevano un po' tutti, faceva presto a farsi voler bene. Era sempre sorridente Lauretta, il saluto non lo negava mai, capitava che chiedesse qualcosa con aria circospetta, per poi tornare subito a farsi gli affari suoi. Era spesso nei corridoi con le sue insegnanti, troppo indifferenti per starla ad ascoltare. Credo che di sostegno gliene dessero ben poco, avevano semplicemente bisogno di qualcuno da guardare dall'alto, ma Lauretta capiva e non era mai maleducata.

Lauretta era dawn, sì, ma non stupida. Lei non lo dava a vedere, ma sapeva chi erano le persone che le riservavano affetto sincero e quelle che invece erano mosse solamente dal senso di pena. Provava particolare simpatia per i graffiti e chi li faceva; a tal proposito si era fatta una gran cultura, andando spesso con sua madre a vedere quelle "opere" che passavano sui treni alla stazione. Questa sua passione l'aveva portata a stringere amicizia con tutti i graffitari dell'istituto, gente talentuosa senza uno scopo preciso. Lauretta però aveva un piano per loro.
Quella mattina a scuola c'era un viavai incredibile di gente e telefonate. Una folta schiera di studenti era uscita dalle aule per guardare ammirata il miglior graffito che la loro mente riuscisse a ricordare. La vicepreside, scurissima in volto, chiamava tutti i professori a rapporto. Nessuno, nemmeno il più sbirro dei docenti, riusciva a spiegarsi come e quando fosse stato possibile realizzare una cosa del genere su una parete interna alla struttura.



Lauretta guardava in disparte il suo capolavoro, sicura che comunque nessuno avrebbe sospettato di lei.
In quel momento si sentì presa da una calda sensazione che non riuscì a definire, un misto di felicità e rivincita, una cosa così.




















°Disegno by me

sabato 26 settembre 2009

La quiete dopo la tempesta

Ogni cosa quella sera sapeva di poesia, anche se all'inizio sembrava non ve ne fosse per niente.
Lei guardava con il sopracciglio un po' inarcato un punto, lì in alto. Questo le conferiva un'espressione trasognata e misteriosa al contempo.
Sapeva che la guardavo, ma non incontrava volutamente il mio sguardo, semplicemente mi lasciava fare. Stavo però attento a non essere troppo invasivo, a non spogliarla del tutto insomma.
Non so cosa guardasse. Forse piccoli e brevissimi frammenti di luce che rendevano per un attimo visibili le nuvole scure, chissà.
Solo più tardi ne udii il rumore.

Iniziò timidamente, poi continuò ad intervalli irregolari, il ticchettìo diventò quasi rincuorante, fino a scrosciare che diolamanda, con tutta la violenza non sfogata per mesi.

Quando tornai alla mia donna, lei no, non era più lì: era andata ad asciugarsi al riparo d'un balcone. Strizzando la maglietta fradicia mi sorrise, per poi scomparire nel buio.
La pioggia cessò presto, lasciando un me stesso più svuotato ed un'erba più verde mentre la gente, uscita da improvvisati nascondigli, si avviava lentamente verso casa.



°Foto by Dà

mercoledì 9 settembre 2009

Troppo uguale

Di mirabili riflessioni, sul senso della vita o cose così, se ne possono fare a bizzeffe; magari non situazioni vere e proprie, solo ragionamenti che portano ad una conclusione, in modo da semplificare l'esistenza sia a me che a voi... Ma voi non volete una cosa così, no. Volete un storia.

Allora vi accontento:


conoscevo una ragazza tempo fa, non una qualunque. Diceva che per sentirsi vivi non bisogna mai smetter di pensare, infatti lei lo era. Portava con sè quella scintilla vitale capace di attirarmi.
Mi ricordo poi di quel dì in cui non la riconobbi.
Aveva riposto la chitarra nel dimenticatoio per passare alle automobili. E aveva cominciato a preferire le casse di una pista luminosa alla bellezza di un dettaglio.
Provava noia per tutto ormai, anche per il cinema.
S'era ridotta ai bisogni primari -bere, dormire, mangiare- e non parlava più di niente. Questo ha fatto sì che avesse molto più successo tra le amiche però, e forse sarà stato quello.

Non è che lo dicessi per qualche mia mania, fatto sta che non l'ho più incontrata e forse è stata colpa mia:
chè lei è cambiata, chè tutto il mondo cambia, mentre io rimango troppo uguale.


°Nella foto, Scarpa e Benzina by Martina

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