venerdì 28 gennaio 2011

postulati sull'amore: lo scatto


Nel mio indice di scoperta, la fotografia non è collocata esattamente all’ultimo posto.

Avevo una Polaroid alle elementari - gigantesca - che però usavo solo per far figura con i compagni; non è che ne capissi ancora il potenziale. Molto più tardi mi sono deciso ad esplorarne le qualità e ad oggi, nonostante studi intrapresi in questa direzione, non ne ho compreso a pieno tutti gli aspetti. Della fotografia in genere, non della Polaroid. Il che mi spinge a riportare la storia (vera o inventata, non lo so) di una donna che sicuramente se ne intende più di me, per raccontare come concepisco questo incredibile contenitore d’intenti.

Annie era una ragazza a dir poco curiosa. I suoi occhi erano schiavi della voglia di guardare. Per questo si era munita di un terzo, meccanico, all’altezza delle mani, con il quale riuscì ad avere il controllo totale. Era lei finalmente a decidere l’inclinazione da dare, quanta luce far passare, quanto tempo aperto dovesse rimanere.
Ai suoi tempi era diverso, certo. Rullino, camera oscura, messa a fuoco manuale. Ma Annie non era, in questo senso, una “purista”; se avesse saputo che un giorno avrebbe potuto scattare una foto con una semplice funzione del cellulare, ne sarebbe stata sicuramente entusiasta. Alla fine dipende dall’uso che ne fai, da quale effetto vuoi ottenere e, soprattutto, da cosa vuoi rappresentare. Comunque, grazie a questo mezzo, Annie riuscì ad impressionare, non poco, i suoi, di occhi e anche quelli degli altri. Personaggi famosi, come quella celebre rockstar sdraiata e abbracciata al suo amore, ma anche semplici membri della sua famiglia, tutti passati singolarmente dal suo obiettivo per essere poi osservati in tutto il mondo. Sotto quest’aspetto ha rappresentato lo strumento più democratico da utilizzare. Poi si sa: nel caso tu non sappia fotografare, che tu sia un uomo o una donna, ti basta mostrare un paio di tette per essere comunque apprezzato. Annie l’aveva capito e forse anche per questo s’era messa a fare la fotografa di moda. Per dimostrare che anche i fenomeni possono far tendenza, se lo vogliono. Non solo le “signorine”.

Un maestro che a lei piaceva molto, Cartier Bresson, diceva che “fotografare è porre sulla stessa linea

Gli occhi, la Mente e il Cuore”.

Col discorso non fila molto.
Però.
Aveva ragione.

[Spero a questo punto di non avervi tediato oltremodo; sperando di non essere stato assolutamente esauriente, ma il più possibile parziale, perché ogni cosa ha l’importanza del pensiero a cui è associata e con questo non intendo dire proprio niente, qui la chiudo e mi ritiro]

venerdì 21 gennaio 2011

postulati sull'amore: l'azione


Non ho molto da dire in proposito.

Secondo illustri pareri, il cinema ricopre il settimo posto nell’elenco delle arti visive, in quanto racchiude in sé tutte quelle precedentemente annoverate dall’uomo. La più grande cazzata mai detta, a mio avviso.

Il cinema possiede un suo linguaggio distinto, coi suoi ritmi e le sue regole, che a volte richiede tempo per essere assimilato e al quale in ogni caso si finisce per adeguarsi. Come mezzo di espressione non ha mai smesso di innovare e reinventarsi, sopravvivendo ai palinsesti tv, all’home video, allo streaming della rete. Sarà anche per questo che il cinema, quello buono almeno, riesce ancora oggi a stupire e divertire, promotore di un linguaggio che, appunto, non si è mai limitato alla semplice riproduzione del movimento e che spesso ha influenzato i costumi di intere generazioni.

Dopo un’indigestione per la troppa celluloide è probabile però che tu non riesca più a tornare indietro (specie se hai guardato troppi David Lynch). Da quel momento sarai irrimediabilmente malato, praticamente un maniaco, ogni immagine da te osservata assumerà un taglio cinematografico, come piccoli fotogrammi di ogni giorno, niente di più lontano dalla realtà. Scena: stai andando a pisciare, camera a mano; soggettiva sulla ceramica mentre le prime gocce, scandite dalle note di un’azzeccata colonna sonora, cominciano a scendere. Solo che la camera non c’è, è tutto nella tua testa. Sei perduto, ormai non hai scampo, arrivi persino ad immaginare delle sequenze precise per ogni persona che incontri in strada. Dove vanno, cosa si dicono, perché lo fanno.

“Il grande imbroglio”

come lo chiamava qualcuno. Infatti sei comunque tu a decidere quale parte mostrare e quale nascondere, cosa raccontare e cosa tagliare. E proprio qui sta il punto.

Il cinema non ha mai avuto bisogno, per così dire, di una visione d’insieme; differendosi moltissimo, in questo senso, dal teatro, che invece è comunque costretto a rappresentare alcuni aspetti che risultino a tutti familiari. Mentre quando vai al cinema semplicemente ti siedi e guardi. Se ti piace bene, altrimenti puoi sempre lanciare i pop-corn alle file davanti.
In fin dei conti potrebbe incarnare la negazione dell’oggettività: una visione unica e riservata del regista, che non contempla necessariamente la reazione del suo pubblico.
Ecco perché non capisco quando un film riporta la dicitura “per tutti”.

Alcuni cineasti, sbattendosene di questo aspetto così caro al botteghino, hanno dato vita a dei veri e propri capolavori. Gli altri hanno continuato a confezionare panettoni farciti.

Molte volte un capolavoro non riesci ad apprezzarlo subito. Come un vecchio amico che ha riempito i tuoi pomeriggi infantili e che anni dopo riscopri e riconosci con occhi diversi, magari più critici. Ecco che scocca la scintilla ed è amore per sempre (nonché una palata di citazioni).

La ripetizione di dialoghi inventati, il meccanismo impossibile, la situazione che non può verificarsi; forse si tratta solamente di questo. Finzione. A volte ben più plausibile della vita vera.

È tutto, per ora.

[L'ultima puntata venerdì prossimo, più o meno a quest'ora]

venerdì 14 gennaio 2011

postulati sull'amore: la parola


Intesa come letteratura, certo. Considerata da alcuni persino un dono, quella della parola è una storia strana.

Le parole possono essere pericolose, specie se dette a sproposito. Quando una parola è scritta, però, non è che tu la prendi e la butti via così, come se stessi parlando. No; prima la mastichi un po’, ci rimugini sopra, e solo quando ti sembra adeguata la sistemi sul foglio, in modo che faccia la sua porca figura. Ecco che, insieme alle altre, questo magnifico insieme, ‘sto paroliere, si mette in moto, creando un ritmo tutto suo, una musicalità, insomma. Tu non puoi niente, anzi capitano quelle volte in cui proprio non riesci a fermarti. Le tue dita diventano un semplice complemento al servizio del testo, come se si stesse generando da sé.

Mille aneddoti come questo non servirebbero a rendere chiaro perché ci si innamori della letteratura. Non credo sia tanto una questione di cultura, che detta così sembra qualcosa a sé stante, di passato e dimenticato sotto un metro di polvere.

Son piaceri sottili, che nascono da soli, molto lontano dai banchi di scuola. Certe cose non si imparano, mica è come andare in bicicletta. Alla fine leggere piace o no. Si vive lo stesso anche senza. Sono convinto però che esistano parole troppo belle per essere espresse con la bocca; andrebbero subito perse in una folata di vento, nel latrato di un cane oppure, se piove ed è autunno, confuse per terra in mezzo alle foglie umide. Per questo ogni tanto si sente il bisogno di scrivere: non perché sia un gesto “alto” o nobile, ma per il semplice fatto che ci sono cose che proprio non avrebbero senso, riferite a voce.

Ma allora ogni parola, basta che sia scritta, può essere considerata automaticamente letteratura? Anche, che so, le insegne dei negozi, chè stanno lì in alto e tu, passando, le leggi (magari ad alta voce); sono letteratura anche quelle?

Proviamo: MERCATONE UNO.

Hm, non proprio. Però cerchiamo di vederla in maniera creativa. Prendiamo una locuzione verbale semplicissima, da tipico caso d'interrogazione alla lavagna:


Francesco mangia la mela

Nessuna emozione, nessuna armonia, calma piatta. Eppure, se si prova ad invertirne il senso, possono venir fuori delle soluzioni interessanti. Ad esempio:

Mangia la mela Francesco

Che suona un po’ come un imperativo, tipo il padre di Francesco che sta intimando al figlio di terminare il pranzo perché è tardi e poi deve sparecchiare. O ancora:


Francesco la mela mangia

Il che è veramente ambiguo, perché non si capisce bene se la frase sia pronunciata dal maestro Yoda o se questa volta sia Francesco ad essere mangiato.

Con questo non intendo dire che leggere sia il “cibo” di qualcosa; a proposito, dopo quella pubblicità del consiglio dei ministri, nella quale ricche signore si passano un libro di mano in mano mentre prendono il sole in un giardino vittoriano, pare che un barbone abbia cercato di far passare un’intera edizione dei Promessi Sposi attraverso l’orifizio anale di un’ignara donna sulla sessantina mentre usciva dal supermercato (il Mercatone Uno).

Visto come si può cadere in fraintendimenti, a causa delle parole? In questi casi un’azione decisa risolve tutto in poco tempo.

Più o meno come me adesso, che prendo queste righe e clicco su “pubblica post”.

Sono vostre.

venerdì 7 gennaio 2011

postulati sull'amore: il segno


Per il solo fatto che spesso la correlazione anno nuovo vita nuova sia svuotata di senso (più altri meccanismi oscuri che non trovano spiegazione nelle regole della logica tradizionale), mi sembra doveroso inaugurare il decennio appena iniziato con questa serie di “postulati sull’amore”. Nessuna immagine di accompagnamento, solo parola scritta, astenersi lettori di diari personali e delusioni sentimentali.

Ne aggiungerò uno ad ogni venerdì, stando attento a non fornire alcun tipo di definizione, soltanto impressioni personali, non in ordine d’importanza ma di scoperta.

Cominciamo appunto parlando d’immagini e dei segni che le compongono, della possibilità di tramutare i primi ghirigori infantili in opere in grado di farti andare di traverso l’intero cenone di capo d’anno. Il motivo per cui ho scelto il disegno classico come argomento di base risiede nella mia incapacità di andare oltre le raffigurazioni “bidimensionali” bizantine (per il 3D c’è il multisala).

D’altronde

io subisco molto il fascino delle immagini*

(affermazione da riportare rigorosamente con un neo posticcio al centro della fronte, roteando piano la testa con occhi sbarrati e denti stretti) praticamente da quand’ero in fasce. Mi domandavo come si potessero realizzare quelle figure, tanto perfette quanto semplici, che vedevo nei cartoni alla tv o nei fumetti sulle riviste. Così la prima cosa che feci fu tentare di copiarle, riportandole su qualsiasi pezzo di carta mi capitasse a tiro. Mi concentravo soprattutto sui vestiti dei personaggi, sui particolari, lasciando perdere le espressioni del volto. Riempivo quaderni interi, eppure mi sembrava impossibile. Dopo un po’ capii che non si trattava d’altro che un insieme di linee, pur complicato che fosse, e che il mio segno non doveva essere sostanzialmente uguale a quello degli altri per rendere il personaggio verosimile. Certo continuava a presentarsi qualche problema; ad esempio disegnavo sempre una gamba più corta dell’altra, un braccio più magro e così via. Per di più la mia mano, la sinistra, ancora diseducata al gesto, si stancava quasi subito e spesso mi capitava di sporcare tutto il foglio. Mi ricordo che una maestra mi consigliò una penna particolare, di quelle con l’inchiostro cancellabile, il che complicò ulteriormente la situazione (ancora quelle per mancini non le avevano inventate). Molto più tardi, dopo parecchi anni di aloni e di macchie, qualcuno mi disse di usare le matite e, solo una volta soddisfatto, passare tutto a penna. Ovviamente il mio tratto era nello stile zappa (non il chitarrista, mi riferisco proprio allo strumento agricolo), il che rendeva difficile cancellare gli errori. A forza di copiare però riuscii ad immagazzinare un archivio di immagini-tipo sempre maggiore, dal quale pescavo ogni volta che dovevo rappresentare qualcosa. La soddisfazione più grande per me rimaneva comunque lo schizzo fatto di getto, senza correzioni, quando hai ben fisso in mente ciò che vuoi fare e sai come metterlo in pratica; questa cosa della grafite però mi aiutò moltissimo, arrivando addirittura a ricoprire il ruolo di comunicazione alternativa quando le parole non bastavano. Poi fu la volta della china, che mi permettè di campire enormi zone di nero in poco tempo, e del colore, che rese tutto più imprevedibile e sperimentale. Questo coincise più o meno con un cambio di orientamento nei miei soggetti verso le persone reali, ben più interessanti e sfaccettate dei personaggi di fantasia. La lotta contro gli stereotipi continua ancora oggi, nonostante la scuola mi abbia impartito le tecniche per sbarazzarmene. In qualche modo però credo d’essere riuscito a distinguere un segno elegante da uno incompleto, un ritratto accademico da una caricatura. Ecco, a tal proposito: le caricature sono divertenti. Fai credere ad una persona di accentuarne i difetti, mentre in realtà stai solo aggiustando qua e là; in sostanza, giochi a farla sentire più bella di com’è. Se pensi a come la percepisci veramente, con quel naso palesemente fallico e quelle orecchie plananti, realizzi di aver salvato in questo modo un’autostima, pur continuando a ridere dentro. Ecco perché il figurativo è così limitato; finisci per essere costretto all’interno di un qualche schema prestabilito, che sia la “spiccata sensibilità” del tuo pubblico o il buon gusto comune. Con l’astratto invece puoi lasciare uscire le linee dalla porta di servizio senza bisogno di ordinarle, puoi dare libero sfogo al tuo immaginario, stimolando la curiosità e lasciando spazio all’interpretazione libera.


In questo senso si può dire che la capacità di sintesi tradotta in immagine sia il mezzo più potente che esista, specie se accompagnata da una parola di commento azzeccata, perché basta uno sguardo per percepirlo e renderlo proprio. Da utilizzare a dosi incontrollate, alla totale portata dei bambini, se i sintomi persistono non chiamatela arte.

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