Il pomeriggio del 15 ottobre l’aria era elettrica. La tensione circostante era palpabile negli occhi dei partecipanti al corteo. Praticamente da subito ci avevano avvertito che l’atmosfera non sarebbe stata delle più tranquille, distribuendo sull'autobus numeri di uffici legali che si erano messi a disposizione per l’occasione e una dose di maalox a testa in caso di scontri con la polizia.
Sarebbe troppo facile e riduttivo, nel generico tentativo di voler apparire corretti e non-violenti, estraniarsi completamente da quanto è successo, magari dicendo “noi facevamo parte del corteo normale, non centravamo niente” e cestinando la giornata di sabato come un pugno di atti vandalici che hanno vanificato il senso più profondo della manifestazione.
Schierarsi da una parte, soprattutto quella che va per la maggiore è, certamente, una prospettiva allettante, che aiuterebbe i più a sentirsi con la coscienza a posto. Il fatto, però, che certi fenomeni si verifichino con una tale intensità, obbliga ad una dovuta riflessione prima di poter esprimere un qualsiasi giudizio. Motivo per cui solo adesso sto trovando la lucidità per scrivere queste righe.
Penso che la giornata del 15 sia stata tutt'altro che inutile o priva di significato: prima di tutto perché è riuscita ad unire così tante realtà del mondo precario e studentesco, che erano lì per manifestare, pacificamente, il loro dissenso; in secondo luogo, perché mi ha aperto ancora di più gli occhi su molti aspetti (e certamente non sono il solo) che finora mi avevano lasciato perplesso. Sono stato costretto a togliermi letteralmente di dosso, quasi come fosse un cambio di pelle, la retorica idea secondo la quale gli italiani non si incazzano o non avvertono l’urgenza di un pericolo imminente, quello del crollo politico e finanziario, dal quale il nostro Paese, insieme a tutto l’Occidente, potrebbe uscire distrutto.
Nessuno può dire che la violenza dello scorso sabato fosse inaspettata. Quello che si è verificato era a dir poco prevedibile e probabilmente si è trattato di qualcosa di grandemente inferiore rispetto a ciò che sarebbe potuto accadere, data l’estrema gravità della situazione in cui ci troviamo. Per non parlare delle forze dell’ordine, che questa volta si sono limitate – in parte per ordini ricevuti, in parte perché bloccate dalla resistenza in Piazza San Giovanni – ad un’opera di “contenimento”.
I contrasti, però, non sono stati solamente tra "facinorosi" e polizia; più accreditato è stato lo scontro tra due modi completamente opposti di intendere la piazza e la manifestazione tutta: uno pacifico e festoso, l'altro violento e sovversivo. Non uno giusto e l'altro sbagliato, semplicemente diversi, punto.
Non credo agli illustri assenti, come sempre in cerca di buonismi e capri espiatori, che dall'alto delle loro posizioni si professano totalmente contrari ad ogni tipo di violenza. È stato legittimo, semmai, che una parte dei manifestanti pacifici inneggiasse all'esclusione del “blocco nero” dal corteo (anche se non ne comprendo a pieno le ragioni).
D'altro canto, perché sarebbe dovuta andare diversamente?
Non fraintendetemi, non sto cercando di giustificare alcunché: anch'io non condivido il danneggiamento e la distruzione come metodi per far valere i propri diritti, infatti non ero tra quelli. Ma non si può nemmeno pensare che una manifestazione possa consistere in una sfilata allegorica piena di colori e sorrisi, non nel periodo che stiamo vivendo.
Quei manifestanti che continuavano a ballare in costume, tra le esplosioni e i lacrimogeni, mi davano tanto l’impressione di chi non volesse rendersi conto di quanto stesse accadendo.
Una manifestazione non è una sfilata e l’Italia non è la Spagna: qui abbiamo altri problemi, oltre all'onnipresente debito pubblico, di natura politica e sociale, che ci annoverano tra i prossimi a fallire, nella lista europea.
Si capisce quindi perché la piazza del 15 ottobre abbia fallito: se si tenta di mettere un tappo ai rancori covati da collettivi e movimenti – slegati, se non contrapposti, alla pur cospicua partecipazione dei cittadini – organizzando un corteo "alla indignados", che sfilerà per le vie secondarie della capitale e che si concluderà con un'assemblea preparata a priori, in cui tutti già sanno cosa si scriverà e chi parlerà, il tappo salta.
Vorrei quindi, per una volta, che si riflettesse sull'esasperazione dilagante e su come essa si manifesta (anche se in forma così sbagliata), invece che fare l'ennesima divisione sterile tra buoni e cattivi. D'altronde certi sentimenti di forte rabbia e risentimento sono come un fiume carsico, un disagio sotterraneo che, quando la situazione diventa insostenibile, riemerge improvvisamente, soffocando tutto il resto.
Si tratta di un qualcosa, però, che accomuna tutti, nessuno escluso, soprattutto quanti non erano presenti alla manifestazione.
Io, come tutti, in un futuro non lontano, auspico per una manifestazione partecipata come quella del 15, ma che sia davvero priva di rivendicazioni partitiche e svolta in maniera totalmente non-violenta. Significherà che le cose stanno cambiando.
La non-violenza è la strada che dobbiamo imparare a percorrere, scrive Hessel nel suo Indignez-vous!.
Già. Sarebbe bello.
Nel frattempo, però, non so se professarmi “contro” o “a favore” della violenza. Suona stupido.
Come si fa ad essere per la violenza? Certamente non è uno stile di vita. Semmai si tratta di una conseguenza a qualcos'altro. È la violenza che genera se stessa.
Ma quante forme di violenza esistono? Ce n’è una che può essere considerata minore di altre o meglio necessaria?
La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili.