giovedì 8 dicembre 2011

eroe proletario



Da quando sei nato ti fanno sentire piccolo
Togliendoti il tempo, invece che lasciartelo
Finché il peso è così grande
Che non senti più niente


Ti feriscono in casa e ti picchiano a scuola
Ti odiano se sei sveglio e disprezzi un idiota
Finché sei talmente pazzo
Da non poter seguire le loro regole


Ti hanno torturato e spaventato per vent'anni assurdi
E si aspettano che dopo tu intraprenda una carriera
Quando proprio non funzioni sei così pieno di paura

Ti tengono buono con la tv, il sesso e la religione
E tu pensi di essere così intelligente, libero e indipendente
Ma rimani un cazzo di primitivo, per quanto ne so

Ti sto dicendo che c’è una stanza, là in cima
Ma devi prima imparare ad uccidere sorridendo
Se vuoi essere come la gente sulla collina

Devi essere un eroe proletario
Un eroe proletario, sì, devi esserlo
Se vuoi essere un eroe, beh, allora seguimi


venerdì 2 dicembre 2011

mai un passo

Questa mattina. Ho tante cose da fare. Mi metto a studiare. Preparo il caffè. Poi leggo il giornale. Questa mattina. Forse vado a lezione. Così incontro la gente. Che non dice mai niente. In compenso però. Fa freddo sempre. Sempre freddo giù in strada. Sembra già capodanno. Con le luci dei bar. La fermata del tram. Quasi sempre deserta. Come il cuore, del resto. Ma se almeno una volta. Potessi guardare. Se almeno stavolta. Fossi capace. Di estrapolare. Di vedere tutto [come uno zoom-out sulle mappe di google]. Allora sì. Allora sì che magari [dico magari]. Potrei accorgermi. Della vita di merda. In cui son immerso. In cui tutti fingiamo. Di fare qualcosa. Sbrigare un dovere. Dovere arrivare. E la gente. Ah!, la gente. Non si sopporta. Chiude in faccia la porta. Non ti lascia passare. Ti risponde anche male [se domandi qualcosa]. Brutta vecchia merdosa! Giovanotto coglione! Guardi se non la smette... Riferisco a sua madre. Ma tua madre è depressa. E non puoi farci niente. Molto probabilmente. Piangerebbe soltanto. Nemmeno poi tanto. Ma si sta così stretti. Ché ognuno ormai spera. Che l’altro si estingua. Lentamente soccomba. Ma si sa che alla fine. Alla fine un po’ tutti. Vorremmo essere meno. Avere l’esclusiva. Trattamenti speciali. L'occhio di riguardo. Dal macellaio. Allo stadio. Al supermercato. E lei? Un etto di prosciutto. Senza grasso. Sa mio marito. Ha il diabete. Pover'uomo. Ah non l’avete? Strano. Eppure avevo chiesto. Avevo parlato. Al suo collega. E lui [sì lui]. Mi aveva assicurato. Certamente. Garantito. Glielo metto da parte [glielo metto in disparte]. Scusi ho solo questi. Mi lascia passare? Guardi: vado proprio di fretta. E ci mette due ore. A quest'ora. Sarei già potuto essere a casa. Al sicuro. A sentir le notizie. Dal telegiornale. Ché poi l’informazione. Anche quella non scherza. Tutti chiusi di mente. Credono di sapere. Curvi sulle loro sedie. Ciechi, dentro una stanza. Frustrati. Scaricatori d'odio. Quantomeno una volta. Una volta sapevi. Chi erano. Con chi prendertela. Ora invece. Ora invece son tutti. Un’intera mandria. Di gran teste di cazzo. Dell’ultim’ora. Certo. Certo, hai ragione. Non c’è niente da aggiungere. Non sono più questi. Discorsi da fare. Mentre vecchi accattoni. Si lasciano esplodere. Nelle stazioni. Noi restiamo a guardare. Le nostre illusioni. Che come tappeti. Si sono arrotolate. E messe da parte. Buone soltanto. A prendere polvere. Ogni tanto le guardo. Provo un po’ di magone. Quando ho tempo magari. Ci passo lo straccio. Anzi, sai cosa faccio? Domani le butto. Così non ci penso. Penso proprio che adesso. Mangerò qualcosa. Dopo laverò i denti. E poi vado a dormire. Ché s'è già fatto tardi. Sarà tardi domani. Tardi il giorno seguente. E il mese successivo. Io però non ci penso. Ho tante cose da fare. Io continuo a danzare. In questo girotondo. Ogni tanto mi fermo. Solo per fare spazio. Ad un nuovo arrivato. Prego avanti, c’è posto. A chi esce dal giro. Non riservo commiato. Io son ballerino. Io mi muovo. Giro ‘n tondo. E mai un passo. Mai un passo fuori posto.

domenica 27 novembre 2011

palloncini


L’altro giorno ero al parco, alla ricerca di un po’ di tregua dal traffico cittadino, quando ad un tratto mi imbattei in un bambino – avrà avuto 6, 7 anni al massimo – che rese vano il mio tentativo di fuggire al caos quotidiano con quest’unica, stridula frase:

“7 Ottobre!”


Poi, un gran boato, che rimbalzava addosso alla vegetazione circostante. Il piccolo, infatti, si divertiva a far scoppiare dei palloncini colorati con le mani e, prima di ogni nuova detonazione, urlava una data a caso:

“20 Marzo!”

Il padre del precoce guerrafondaio se ne stava su una panchina lì accanto, noncurante del gran baccano che questi produceva con le sue manine sante, né del fastidio che procurava alle altre famiglie che in quel momento stavano passando.

Lo vede? – Mi disse compiaciuto il tipo, notando che guardavo la scena incuriosito.

– Tutto suo padre! Gli ho insegnato a memoria le date d’inizio di tutti i conflitti ai quali il suo vecchio ha aderito con onore. Tutte quante. Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia. Da quando gli ho fatto vedere i filmati, poi, ha dato proprio di matto. –

Ma è terribile! – commentai io, allibito.

Sì, lo so – mi rispose lui – ma cosa vuole, son bambini. Non possono ricordarsi proprio tutto. Tra qualche tempo saprà anche anno e orario d’attacco, glielo garantisco. –

Nel frattempo una bambina, che timidamente si era avvicinata, volle giocare anche lei con i palloncini.


“Guarda papà, atto di forza!”


Gridò diabolico il balilla, rivolto al padre, mentre torceva il braccio della sventurata.

Quello scoppiò in una fragorosa risata, salvo poi intimargli di smetterla, ché già si era fatta l’ora di andare.

Anche se scocciato, il bambino obbedì e lasciò il braccio della poverina, che scappò via piangendo.

Prima di andarsene, però, il piccolo portò meticolosamente a termine la missione, finendo gli ultimi palloncini a suon di pestoni.

Quel pezzo di aiuola sembrava un vero campo di battaglia adesso, con quelle zolle di terra smossa e tutti quei resti di gomma inutile e polverosa.

In particolare, m'incuriosiva il fatto che il bambino non avesse la benché minima paura di fronte allo scoppio, così chiesi al padre:

- Come mai ?

Questa volta però non mi rispose. Richiamò il figlio a sé e, tendendolo per mano, si voltò e mi sorrise. Come a dire: gli verrà.




domenica 6 novembre 2011

orange park





come together
to this orange park
let's play life
as we like

words of smoke
smell of meat
hot coals
caducity

our existence
not been in vain
we can wake up
in the next hour

reflections of mirrors
withouth people
wood tasted
by time and sun
the sky speaks to us
of his relationship
with any crazy man
who looked at him

to search inspiration
the cold of this winter
forces you to stay
inside square houses

but the inanimate rides
are moved by themselfs
pushed by the wind

in this orange park

sabato 22 ottobre 2011

what is violence


Il pomeriggio del 15 ottobre l’aria era elettrica. La tensione circostante era palpabile negli occhi dei partecipanti al corteo. Praticamente da subito ci avevano avvertito che l’atmosfera non sarebbe stata delle più tranquille, distribuendo sull'autobus numeri di uffici legali che si erano messi a disposizione per l’occasione e una dose di maalox a testa in caso di scontri con la polizia.

Sarebbe troppo facile e riduttivo, nel generico tentativo di voler apparire corretti e non-violenti, estraniarsi completamente da quanto è successo, magari dicendo “noi facevamo parte del corteo normale, non centravamo niente” e cestinando la giornata di sabato come un pugno di atti vandalici che hanno vanificato il senso più profondo della manifestazione.

Schierarsi da una parte, soprattutto quella che va per la maggiore è, certamente, una prospettiva allettante, che aiuterebbe i più a sentirsi con la coscienza a posto. Il fatto, però, che certi fenomeni si verifichino con una tale intensità, obbliga ad una dovuta riflessione prima di poter esprimere un qualsiasi giudizio. Motivo per cui solo adesso sto trovando la lucidità per scrivere queste righe.

Penso che la giornata del 15 sia stata tutt'altro che inutile o priva di significato: prima di tutto perché è riuscita ad unire così tante realtà del mondo precario e studentesco, che erano lì per manifestare, pacificamente, il loro dissenso; in secondo luogo, perché mi ha aperto ancora di più gli occhi su molti aspetti (e certamente non sono il solo) che finora mi avevano lasciato perplesso. Sono stato costretto a togliermi letteralmente di dosso, quasi come fosse un cambio di pelle, la retorica idea secondo la quale gli italiani non si incazzano o non avvertono l’urgenza di un pericolo imminente, quello del crollo politico e finanziario, dal quale il nostro Paese, insieme a tutto l’Occidente, potrebbe uscire distrutto.

Nessuno può dire che la violenza dello scorso sabato fosse inaspettata. Quello che si è verificato era a dir poco prevedibile e probabilmente si è trattato di qualcosa di grandemente inferiore rispetto a ciò che sarebbe potuto accadere, data l’estrema gravità della situazione in cui ci troviamo. Per non parlare delle forze dell’ordine, che questa volta si sono limitate  in parte per ordini ricevuti, in parte perché bloccate dalla resistenza in Piazza San Giovanni  – ad un’opera di “contenimento”.

I contrasti, però, non sono stati solamente tra "facinorosi" e polizia; più accreditato è stato lo scontro tra due modi completamente opposti di intendere la piazza e la manifestazione tutta: uno pacifico e festoso, l'altro violento e sovversivo. Non uno giusto e l'altro sbagliato, semplicemente diversi, punto.

Non credo agli illustri assenti, come sempre in cerca di buonismi e capri espiatori, che dall'alto delle loro posizioni si professano totalmente contrari ad ogni tipo di violenza. È stato legittimo, semmai, che una parte dei manifestanti pacifici inneggiasse all'esclusione del “blocco nero” dal corteo (anche se non ne comprendo a pieno le ragioni).


D'altro canto, perché sarebbe dovuta andare diversamente?

Non fraintendetemi, non sto cercando di giustificare alcunché: anch'io non condivido il danneggiamento e la distruzione come metodi per far valere i propri diritti, infatti non ero tra quelli. Ma non si può nemmeno pensare che una manifestazione possa consistere in una sfilata allegorica piena di colori e sorrisi, non nel periodo che stiamo vivendo.

Quei manifestanti che continuavano a ballare in costume, tra le esplosioni i lacrimogeni, mi davano tanto l’impressione di chi non volesse rendersi conto di quanto stesse accadendo.

Una manifestazione non è una sfilata e l’Italia non è la Spagna: qui abbiamo altri problemi, oltre all'onnipresente debito pubblico, di natura politica e sociale, che ci annoverano tra i prossimi a fallire, nella lista europea.

Si capisce quindi perché la piazza del 15 ottobre abbia fallito: se si tenta di mettere un tappo ai rancori covati da collettivi e movimenti  slegati, se non contrapposti, alla pur cospicua partecipazione dei cittadini  organizzando un corteo "alla indignados", che sfilerà per le vie secondarie della capitale e che si concluderà con un'assemblea preparata a priori, in cui tutti già sanno cosa si scriverà e chi parlerà, il tappo salta.

Vorrei quindi, per una volta, che si riflettesse sull'esasperazione dilagante e su come essa si manifesta (anche se in forma così sbagliata), invece che fare l'ennesima divisione sterile tra buoni e cattivi. D'altronde certi sentimenti di forte rabbia e risentimento sono come un fiume carsico, un disagio sotterraneo che, quando la situazione diventa insostenibile, riemerge improvvisamente, soffocando tutto il resto.

Si tratta di un qualcosa, però, che accomuna tutti, nessuno escluso, soprattutto quanti non erano presenti alla manifestazione.

Io, come tutti, in un futuro non lontano, auspico per una manifestazione partecipata come quella del 15, ma che sia davvero priva di rivendicazioni partitiche e svolta in maniera totalmente non-violenta. Significherà che le cose stanno cambiando.

La non-violenza è la strada che dobbiamo imparare a percorrere, scrive Hessel nel suo Indignez-vous!.

Già. Sarebbe bello.

Nel frattempo, però, non so se professarmi “contro” o “a favore” della violenza. Suona stupido.

Come si fa ad essere per la violenza? Certamente non è uno stile di vita. Semmai si tratta di una conseguenza a qualcos'altro. È la violenza che genera se stessa. 

Ma quante forme di violenza esistono? Ce n’è una che può essere considerata minore di altre o meglio necessaria?


La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili.

sabato 10 settembre 2011

old generations hates new

Posso capire tutto. Le copertine cartonate, il prezzo elevato, l'abbandono delle edicole, la carta patinata. Però Andrea Pazienza non me lo devono toccare (se non siete appassionati di fumetti o simili continuate a leggere, in realtà il discorso è ben più ampio). Il tema infatti è la nuova edizione de Le Straordinarie Avventure di Pentothal, edita da Fandango. Volendo tralasciare la scelta d'impaginazione completamente a cazzo, cronologicamente sbagliata, che nulla ha a che vedere con l'originale ordine pensato dall'autore, comincio a insospettirmi quando, sfogliandolo in negozio, noto la totale omissione di alcune pagine più "violente". Nemmeno nella prefazione riesco a trovare nulla a riguardo, come se questa fosse la cosa più naturale del mondo. "Tanto", avrà pensato l'editore Fandango, "in pochissimi andranno a cercare l'edizione vecchia, mentre chi già la possiede col cazzo che si andrà a spulciare quella nuova". Sbagliato. Ma quello che mi fa veramente incazzare è vedere che in uno dei paginoni con la testata che dà il titolo alla storia (per l'esattezza quella in cui il vecchio Pento si sveglia a causa di un improvviso tuono nel cuore della notte), un'innocua e poco ostentata bestemmia sia stata sostituita con un insulso ed inutile "Cristo!". Da non crederci. Cos'è, i creditori Fandango sono forse tutti cattolici?


Non è tanto la bestemmia ad essere importante, quanto la completezza di un'opera, che in questo modo viene tagliata per una censura assurda e bigotta .
Se il linguaggio ti urta puoi sempre scegliere di non leggere, no?

"Oh, Pazienza ha scritto una bestemmia. Vado a bruciare tutti i miei Frigidaire."




È come se le vecchie generazioni volessero vendicarsi delle nuove, tornando ad una sorta di bacchettoneria forzata, che nasconda tutti gli eccessi presenti e passati con un innocente eufemismo, perfettamente in linea con quest'Italia provinciale e ipocrita del "puritanesimo puttaniere".

Ora, tutti sanno che Pazienza fosse un eroinomane e che per questo ci abbia lasciato la pelle. Immaginiamo un dialogo tra lui e un giovane di oggi. Così, per ridere:

"Certo, ai nostri tempi era diverso. Se non ti drogavi eri uno sfigato, non valevi un cazzo. Per capire l'incidenza dell'eroina nella società dei '70 - '80 basta metterla a confronto con... Come si chiama, quella roba che vi sparate tutti, oggi? Feiscoso..."


"Feisbùk."

"Quello. Quanti sono quelli che oggi dicono razionalmente no a facebook?"

"..."

"Ecco. Noi avevamo l'eroina. Voi avete facebook. Non so se sia meglio."

Cosa facciamo, ci mettiamo a tagliare culi e tette dai film di Fellini?
Alle statue di Michelangelo nascondiamo il pisello?
A Manara facciamo disegnare i Puffi? 
Per cosa, poi, se non per giustificare la nostra inadeguatezza?Cerchiamo di rispettare l'autenticità in un'opera, prima di tutto, qualunque cosa essa comporti. Anche non comprando queste nuove edizioni Fandango dei fumetti di Andrea. Se avete la fortuna di procurarvi le edizioni originali bene, altrimenti ve le presto io. E l'arte non si censura,"Dio cane".

domenica 4 settembre 2011

un po' di sano scaramantico pessimismo




La fine del mondo si avvicina. Tutti lo sanno, pochi ne prendono in considerazione la reale probabilità. Qui non si parla di previsioni apocalittiche o di altre puttanate maya, tutt'altro. Il mondo è già finito da un pezzo - o almeno così pare - sebbene tutti fingano di condurre la solita vita di sempre. Il mondo ha esaurito la sua capacità di guardar-si ed innovar-si.

Come sarà? Come dovrebbe essere? La fine di ogni cosa, il fascino del nulla.
Ce lo siamo mai domandati seriamente?

Che strazio vedere come i canali You Tube abbiano ormai dissipato il piacere della descrizione. Fondamentalmente non sappiamo più raccontare.


“Sai quella fiaba di H.C. Andersen...
 
Aspetta, non me la ricordo, ti mando il link”. Una cosa del genere.


Questa volta però proveremo a fare un piccolo sforzo.
Un gran brusio. Spiagge dorate abitate soltanto da piccoli gabbiani obesi che, arenati sulla riva, tentano di accaparrarsi gli ultimi gamberetti rimasti, producendo un gran baccano. A vederli da lontano, sembrano tanti inutili sassi bianchi al sole, solo che in più hanno gli occhi.
Fiumi in secca, i cui letti prosciugati accolgono rottami di reattori nucleari, con carcasse di vacche fisse nella posizione dell’abbeveraggio.Ombre bianche sui muri delle case diroccate. I corpi nudi sono scomparsi, venduti all'ingrosso di qualche asta su E-Bay. Certo è un vero peccato, commenterà qualche prosa utility postuma, che tutto sia finito così presto; e senza un minimo di preavviso, dannazione! Proprio adesso che anche in Italia stava per scoppiare la Révolution (dei prodotti Apple, naturalmente). Prima che arrivi il prossimo uragano, un peschereccio senza remi si allontana all'orizzonte. 

“Lo capisci, amore mio?
Nessuna morte può essere peggiore di quella dell’immaginazione.
 

Adesso dormi”.

domenica 21 agosto 2011

l'amore non si dice

L'amore non si dice.

Non si scrive, non si professa,
né lo si proclama.

L'odio , invece.

Ci sono interi tomi di testi sacri sull'odio, no?
Quelli vendon sempre bene.

É forse per questo che pensate
ch'io possa solo odiare?

Perché non scrivo l'amore?
Perché non lo manifesto?


L'amore non si dice, l'amore si fa.




martedì 14 giugno 2011


Un tempo vi erano due uomini, uno ignorante e l'altro colto.

Quello ignorante disse a quell'altro:

"Per te è facile, tu sei colto! Riesci a distinguere il bene dal male!"

E il colto rispose:

"No, caro amico. Il suo distinguo è del tutto illusorio"
"Io ho studiato, è vero, ho appreso molto. Ma non ne faccio parola con nessuno".

L'ignorante a quel punto gli chiese:

"Ma allora... A che serve esserlo, se poi non lo dici?"

"Io lascio che gli altri lo ignorino, sicché io possa continuare a imparare!"

"Ma non rischi, così, di perderne il valore?"

"Al contrario, amico mio. Al contrario".

L' ignorante non capì fino in fondo ciò che il colto gli disse, senz'altro però gliene piacque il suono.

Fu così che i due camminarono insieme, parlando di Kant e di vario bestiame.

mercoledì 25 maggio 2011

somigliava ad una boa


Che facesse bello o brutto, Christian passava sempre il suo tempo al pontile.

Così si distraeva dal grigiore odierno che si trovava tutt'intorno:
guardando il mare cambiare colore, a secondo dei momenti del giorno.

Christian se ne stava lì, ad osservare i pescatori attraccare, passate le ultime ore di luce.

“Questo pontile non va”, diceva Christian tra sé.

“Prima o poi qualcuno ci cadrà dentro e andrà giù a fondo”.


E infatti ci cadde, il povero Christian, vittima del suo stesso infelice pronostico; un giorno come altri, per caso, mentre era lì a passeggiare, un pezzo di ferro si capovolse sotto il suo peso e il suo corpo paffuto cadde dritto nel mare.

Ma non restò a fondo, no.

Al contrario, per la sua sferica forma, risalì in superficie e per una buona mezz'ora è lì che rimase.

Christian invocava un aiuto a gran voce, vedendo le onde ingrossarsi, sopra e sotto di lui.

Solo che, causa il destino infausto o chicchessia, la sua felpa colorata lo faceva somigliare in tutto e per tutto ad una boa.

I pescatori, che arrivavano al solito orario per attraccare, ebbero l’impressione di udire qualcuno in mezzo al mare, ma si affrettarono comunque ad afferrare quella cosa colorata che somigliava ad una boa, assicurandola alla barca, con un rapido giro di prua.

A quel punto Christian non respirava più bene, con tutta quella corda a stringergli il collo.

In compenso, però, gli riusciva ancora di apprezzare le sfumature dell’acqua, che, calda e salata, gli riempiva il naso, le orecchie, la bocca.

All'ultimo gli parve di sentire la voce di sua madre che, come bollicine, pronunciava parole sempre più fievoli e lontane; gli parve addirittura di vederla, un attimo prima d'affogare, rivolgersi ai pescatori con fare gentile e domandare:

“Avete pesce da arrostire?”

domenica 22 maggio 2011

il mondo è dei sordomuti

20/05/2011
Mi giro e guardo.

Le donne, con il loro sguardo perso nel vuoto, a desiderare gravidanze indesiderate.
I bambini, che imparano a vantarsi fin da piccoli, con la loro spocchia duramente costruita; il pallone ben piazzato; la rete mancante; la testa troppo occupata a star dietro a questa folle corsa quotidiana, per ricordarsi d'essere bambini.
Le automobili, parcheggiate sempre negli stessi punti, quasi avessero il posto riservato, a vomitare personaggi che bofonchiano quattro parole sconnesse, sempre le stesse, fumano velocemente una sigaretta e poi vanno via.
La spiaggia, che aumenta di anno in anno, come a dire che tanto ci sarà sempre spazio, per tutti.

[Ricordando che, dopo tutto, tenere una specie di diario personale può essere importante, quantomeno per conoscersi].

E tutto questo, che non è più il mio mondo.

lunedì 4 aprile 2011

and the tube says

Vado giù
poi risalgo
trattengo il fiato
per corse lunghe
e cose brevi
faccio strada
cammino
sprofondo
passo in mezzo
riemergo

mi lancio

vado, ritorno
mi fermo
attendo
[il mio turno
il tuo sguardo]
mi perdo
spingo
m'affanno
raggiungo
m'inganno
ti guardo.

mercoledì 30 marzo 2011

ti ricordi

quella volta, che siamo andati a teatro, a vedere l’armata russa di San Pietro Burgo ballare?Un bello spettacolo, niente da dire. Quando poi siamo usciti ci prese la fame.Andammo a mangiare al cibo veloce di via rivoluzione, menù a basso costo e bibite a parte.
Io un chicken mc’nuggets + maionese
. Tu un’insalata sapore viennese.Aperta la scatola del mio panino, trovai uno specchio incorniciato da barocchi ornamenti,
simile a quelli che adornavano la casa dello zar Nicola II, solo in mini formato.

Guardai il mio riflesso senza comprenderne subito il nesso*
* d'altronde tutto è innocuo, quand'è tascabile.

Tu mi parlavi, sì, ma facevi fatica, socchiudevi gli occhi e le labbra, quasi annaspavi, in quel tuo lunghissimo monologo d'equivalenze senza fine.




Stato è violenza, sesso è potere,
paura è regime e l'uomo,merce da scambiare.






Sì.

Però adesso, per favore, passami un tovagliolo, che mi è caduta la salsa barbecue sul pantalone.


mercoledì 9 febbraio 2011

sapete che vi dico?


Continuate pure così.

A fare le cose che fate di solito. A bere vino sventato, a calcolare le probabilità, ad aspettare.
Oppure a scrivere di bei colori e del cambio di stagione.
Continuate a stare sui libri, a lavorare, a non preoccuparvi.

Io passo.

Quelli come me sono stati abortiti dalla politica, ogni qualvolta la sopravvivenza dei suoi fautori è stata messa al primo posto a scapito dei cittadini.

...

Provate per una volta a soffermarvi in quello spazio interposto tra casa vostra e il bar dove vi recate di solito. Avete presente?

La strada.

Guardate negli occhi il primo cane che incrociate: non vi troverete un briciolo di cattiveria, nemmeno a cercarla.

Adesso voltatevi.

Guardate gli occhi di un uomo.


venerdì 28 gennaio 2011

postulati sull'amore: lo scatto


Nel mio indice di scoperta, la fotografia non è collocata esattamente all’ultimo posto.

Avevo una Polaroid alle elementari - gigantesca - che però usavo solo per far figura con i compagni; non è che ne capissi ancora il potenziale. Molto più tardi mi sono deciso ad esplorarne le qualità e ad oggi, nonostante studi intrapresi in questa direzione, non ne ho compreso a pieno tutti gli aspetti. Della fotografia in genere, non della Polaroid. Il che mi spinge a riportare la storia (vera o inventata, non lo so) di una donna che sicuramente se ne intende più di me, per raccontare come concepisco questo incredibile contenitore d’intenti.

Annie era una ragazza a dir poco curiosa. I suoi occhi erano schiavi della voglia di guardare. Per questo si era munita di un terzo, meccanico, all’altezza delle mani, con il quale riuscì ad avere il controllo totale. Era lei finalmente a decidere l’inclinazione da dare, quanta luce far passare, quanto tempo aperto dovesse rimanere.
Ai suoi tempi era diverso, certo. Rullino, camera oscura, messa a fuoco manuale. Ma Annie non era, in questo senso, una “purista”; se avesse saputo che un giorno avrebbe potuto scattare una foto con una semplice funzione del cellulare, ne sarebbe stata sicuramente entusiasta. Alla fine dipende dall’uso che ne fai, da quale effetto vuoi ottenere e, soprattutto, da cosa vuoi rappresentare. Comunque, grazie a questo mezzo, Annie riuscì ad impressionare, non poco, i suoi, di occhi e anche quelli degli altri. Personaggi famosi, come quella celebre rockstar sdraiata e abbracciata al suo amore, ma anche semplici membri della sua famiglia, tutti passati singolarmente dal suo obiettivo per essere poi osservati in tutto il mondo. Sotto quest’aspetto ha rappresentato lo strumento più democratico da utilizzare. Poi si sa: nel caso tu non sappia fotografare, che tu sia un uomo o una donna, ti basta mostrare un paio di tette per essere comunque apprezzato. Annie l’aveva capito e forse anche per questo s’era messa a fare la fotografa di moda. Per dimostrare che anche i fenomeni possono far tendenza, se lo vogliono. Non solo le “signorine”.

Un maestro che a lei piaceva molto, Cartier Bresson, diceva che “fotografare è porre sulla stessa linea

Gli occhi, la Mente e il Cuore”.

Col discorso non fila molto.
Però.
Aveva ragione.

[Spero a questo punto di non avervi tediato oltremodo; sperando di non essere stato assolutamente esauriente, ma il più possibile parziale, perché ogni cosa ha l’importanza del pensiero a cui è associata e con questo non intendo dire proprio niente, qui la chiudo e mi ritiro]

venerdì 21 gennaio 2011

postulati sull'amore: l'azione


Non ho molto da dire in proposito.

Secondo illustri pareri, il cinema ricopre il settimo posto nell’elenco delle arti visive, in quanto racchiude in sé tutte quelle precedentemente annoverate dall’uomo. La più grande cazzata mai detta, a mio avviso.

Il cinema possiede un suo linguaggio distinto, coi suoi ritmi e le sue regole, che a volte richiede tempo per essere assimilato e al quale in ogni caso si finisce per adeguarsi. Come mezzo di espressione non ha mai smesso di innovare e reinventarsi, sopravvivendo ai palinsesti tv, all’home video, allo streaming della rete. Sarà anche per questo che il cinema, quello buono almeno, riesce ancora oggi a stupire e divertire, promotore di un linguaggio che, appunto, non si è mai limitato alla semplice riproduzione del movimento e che spesso ha influenzato i costumi di intere generazioni.

Dopo un’indigestione per la troppa celluloide è probabile però che tu non riesca più a tornare indietro (specie se hai guardato troppi David Lynch). Da quel momento sarai irrimediabilmente malato, praticamente un maniaco, ogni immagine da te osservata assumerà un taglio cinematografico, come piccoli fotogrammi di ogni giorno, niente di più lontano dalla realtà. Scena: stai andando a pisciare, camera a mano; soggettiva sulla ceramica mentre le prime gocce, scandite dalle note di un’azzeccata colonna sonora, cominciano a scendere. Solo che la camera non c’è, è tutto nella tua testa. Sei perduto, ormai non hai scampo, arrivi persino ad immaginare delle sequenze precise per ogni persona che incontri in strada. Dove vanno, cosa si dicono, perché lo fanno.

“Il grande imbroglio”

come lo chiamava qualcuno. Infatti sei comunque tu a decidere quale parte mostrare e quale nascondere, cosa raccontare e cosa tagliare. E proprio qui sta il punto.

Il cinema non ha mai avuto bisogno, per così dire, di una visione d’insieme; differendosi moltissimo, in questo senso, dal teatro, che invece è comunque costretto a rappresentare alcuni aspetti che risultino a tutti familiari. Mentre quando vai al cinema semplicemente ti siedi e guardi. Se ti piace bene, altrimenti puoi sempre lanciare i pop-corn alle file davanti.
In fin dei conti potrebbe incarnare la negazione dell’oggettività: una visione unica e riservata del regista, che non contempla necessariamente la reazione del suo pubblico.
Ecco perché non capisco quando un film riporta la dicitura “per tutti”.

Alcuni cineasti, sbattendosene di questo aspetto così caro al botteghino, hanno dato vita a dei veri e propri capolavori. Gli altri hanno continuato a confezionare panettoni farciti.

Molte volte un capolavoro non riesci ad apprezzarlo subito. Come un vecchio amico che ha riempito i tuoi pomeriggi infantili e che anni dopo riscopri e riconosci con occhi diversi, magari più critici. Ecco che scocca la scintilla ed è amore per sempre (nonché una palata di citazioni).

La ripetizione di dialoghi inventati, il meccanismo impossibile, la situazione che non può verificarsi; forse si tratta solamente di questo. Finzione. A volte ben più plausibile della vita vera.

È tutto, per ora.

[L'ultima puntata venerdì prossimo, più o meno a quest'ora]

venerdì 14 gennaio 2011

postulati sull'amore: la parola


Intesa come letteratura, certo. Considerata da alcuni persino un dono, quella della parola è una storia strana.

Le parole possono essere pericolose, specie se dette a sproposito. Quando una parola è scritta, però, non è che tu la prendi e la butti via così, come se stessi parlando. No; prima la mastichi un po’, ci rimugini sopra, e solo quando ti sembra adeguata la sistemi sul foglio, in modo che faccia la sua porca figura. Ecco che, insieme alle altre, questo magnifico insieme, ‘sto paroliere, si mette in moto, creando un ritmo tutto suo, una musicalità, insomma. Tu non puoi niente, anzi capitano quelle volte in cui proprio non riesci a fermarti. Le tue dita diventano un semplice complemento al servizio del testo, come se si stesse generando da sé.

Mille aneddoti come questo non servirebbero a rendere chiaro perché ci si innamori della letteratura. Non credo sia tanto una questione di cultura, che detta così sembra qualcosa a sé stante, di passato e dimenticato sotto un metro di polvere.

Son piaceri sottili, che nascono da soli, molto lontano dai banchi di scuola. Certe cose non si imparano, mica è come andare in bicicletta. Alla fine leggere piace o no. Si vive lo stesso anche senza. Sono convinto però che esistano parole troppo belle per essere espresse con la bocca; andrebbero subito perse in una folata di vento, nel latrato di un cane oppure, se piove ed è autunno, confuse per terra in mezzo alle foglie umide. Per questo ogni tanto si sente il bisogno di scrivere: non perché sia un gesto “alto” o nobile, ma per il semplice fatto che ci sono cose che proprio non avrebbero senso, riferite a voce.

Ma allora ogni parola, basta che sia scritta, può essere considerata automaticamente letteratura? Anche, che so, le insegne dei negozi, chè stanno lì in alto e tu, passando, le leggi (magari ad alta voce); sono letteratura anche quelle?

Proviamo: MERCATONE UNO.

Hm, non proprio. Però cerchiamo di vederla in maniera creativa. Prendiamo una locuzione verbale semplicissima, da tipico caso d'interrogazione alla lavagna:


Francesco mangia la mela

Nessuna emozione, nessuna armonia, calma piatta. Eppure, se si prova ad invertirne il senso, possono venir fuori delle soluzioni interessanti. Ad esempio:

Mangia la mela Francesco

Che suona un po’ come un imperativo, tipo il padre di Francesco che sta intimando al figlio di terminare il pranzo perché è tardi e poi deve sparecchiare. O ancora:


Francesco la mela mangia

Il che è veramente ambiguo, perché non si capisce bene se la frase sia pronunciata dal maestro Yoda o se questa volta sia Francesco ad essere mangiato.

Con questo non intendo dire che leggere sia il “cibo” di qualcosa; a proposito, dopo quella pubblicità del consiglio dei ministri, nella quale ricche signore si passano un libro di mano in mano mentre prendono il sole in un giardino vittoriano, pare che un barbone abbia cercato di far passare un’intera edizione dei Promessi Sposi attraverso l’orifizio anale di un’ignara donna sulla sessantina mentre usciva dal supermercato (il Mercatone Uno).

Visto come si può cadere in fraintendimenti, a causa delle parole? In questi casi un’azione decisa risolve tutto in poco tempo.

Più o meno come me adesso, che prendo queste righe e clicco su “pubblica post”.

Sono vostre.

venerdì 7 gennaio 2011

postulati sull'amore: il segno


Per il solo fatto che spesso la correlazione anno nuovo vita nuova sia svuotata di senso (più altri meccanismi oscuri che non trovano spiegazione nelle regole della logica tradizionale), mi sembra doveroso inaugurare il decennio appena iniziato con questa serie di “postulati sull’amore”. Nessuna immagine di accompagnamento, solo parola scritta, astenersi lettori di diari personali e delusioni sentimentali.

Ne aggiungerò uno ad ogni venerdì, stando attento a non fornire alcun tipo di definizione, soltanto impressioni personali, non in ordine d’importanza ma di scoperta.

Cominciamo appunto parlando d’immagini e dei segni che le compongono, della possibilità di tramutare i primi ghirigori infantili in opere in grado di farti andare di traverso l’intero cenone di capo d’anno. Il motivo per cui ho scelto il disegno classico come argomento di base risiede nella mia incapacità di andare oltre le raffigurazioni “bidimensionali” bizantine (per il 3D c’è il multisala).

D’altronde

io subisco molto il fascino delle immagini*

(affermazione da riportare rigorosamente con un neo posticcio al centro della fronte, roteando piano la testa con occhi sbarrati e denti stretti) praticamente da quand’ero in fasce. Mi domandavo come si potessero realizzare quelle figure, tanto perfette quanto semplici, che vedevo nei cartoni alla tv o nei fumetti sulle riviste. Così la prima cosa che feci fu tentare di copiarle, riportandole su qualsiasi pezzo di carta mi capitasse a tiro. Mi concentravo soprattutto sui vestiti dei personaggi, sui particolari, lasciando perdere le espressioni del volto. Riempivo quaderni interi, eppure mi sembrava impossibile. Dopo un po’ capii che non si trattava d’altro che un insieme di linee, pur complicato che fosse, e che il mio segno non doveva essere sostanzialmente uguale a quello degli altri per rendere il personaggio verosimile. Certo continuava a presentarsi qualche problema; ad esempio disegnavo sempre una gamba più corta dell’altra, un braccio più magro e così via. Per di più la mia mano, la sinistra, ancora diseducata al gesto, si stancava quasi subito e spesso mi capitava di sporcare tutto il foglio. Mi ricordo che una maestra mi consigliò una penna particolare, di quelle con l’inchiostro cancellabile, il che complicò ulteriormente la situazione (ancora quelle per mancini non le avevano inventate). Molto più tardi, dopo parecchi anni di aloni e di macchie, qualcuno mi disse di usare le matite e, solo una volta soddisfatto, passare tutto a penna. Ovviamente il mio tratto era nello stile zappa (non il chitarrista, mi riferisco proprio allo strumento agricolo), il che rendeva difficile cancellare gli errori. A forza di copiare però riuscii ad immagazzinare un archivio di immagini-tipo sempre maggiore, dal quale pescavo ogni volta che dovevo rappresentare qualcosa. La soddisfazione più grande per me rimaneva comunque lo schizzo fatto di getto, senza correzioni, quando hai ben fisso in mente ciò che vuoi fare e sai come metterlo in pratica; questa cosa della grafite però mi aiutò moltissimo, arrivando addirittura a ricoprire il ruolo di comunicazione alternativa quando le parole non bastavano. Poi fu la volta della china, che mi permettè di campire enormi zone di nero in poco tempo, e del colore, che rese tutto più imprevedibile e sperimentale. Questo coincise più o meno con un cambio di orientamento nei miei soggetti verso le persone reali, ben più interessanti e sfaccettate dei personaggi di fantasia. La lotta contro gli stereotipi continua ancora oggi, nonostante la scuola mi abbia impartito le tecniche per sbarazzarmene. In qualche modo però credo d’essere riuscito a distinguere un segno elegante da uno incompleto, un ritratto accademico da una caricatura. Ecco, a tal proposito: le caricature sono divertenti. Fai credere ad una persona di accentuarne i difetti, mentre in realtà stai solo aggiustando qua e là; in sostanza, giochi a farla sentire più bella di com’è. Se pensi a come la percepisci veramente, con quel naso palesemente fallico e quelle orecchie plananti, realizzi di aver salvato in questo modo un’autostima, pur continuando a ridere dentro. Ecco perché il figurativo è così limitato; finisci per essere costretto all’interno di un qualche schema prestabilito, che sia la “spiccata sensibilità” del tuo pubblico o il buon gusto comune. Con l’astratto invece puoi lasciare uscire le linee dalla porta di servizio senza bisogno di ordinarle, puoi dare libero sfogo al tuo immaginario, stimolando la curiosità e lasciando spazio all’interpretazione libera.


In questo senso si può dire che la capacità di sintesi tradotta in immagine sia il mezzo più potente che esista, specie se accompagnata da una parola di commento azzeccata, perché basta uno sguardo per percepirlo e renderlo proprio. Da utilizzare a dosi incontrollate, alla totale portata dei bambini, se i sintomi persistono non chiamatela arte.

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